Il Centro Sperimentale di Cinematografia, detto colloquialmente Il centro, come già a darne una collocazione ideale oltre che spaziale, è una delle più antiche scuole di cinema del mondo, nata ufficialmente nel 1935. È un luogo che possiede un’aura quasi ossessiva per tutti i giovani che vogliono fare cinema. Per i pochi che non lo sapessero, le selezioni per entrare ogni anno sono severissime e i posti a disposizione sono scarsi, circa otto per ogni ambito.
Il mio obiettivo però non è provare a definire cosa sia questo luogo. Vorrei piuttosto sfruttarlo per ragionare su una problematica del cinema italiano. Il Centro Sperimentale può essere infatti preso come case study per la maniera in cui questo paese tratta i suoi giovani. Cosa intendo? Intendo che è un luogo, una realtà, uno spazio fintamente meritocratico. Questo non ci vuole molto a capirlo se si è provato ad entrarci e appare magari anche ingenuo, per i più, sottolinearlo. Non penso di dire qualcosa di brillante o innovativo ma qualcosa che tutti pensano e che nonostante ciò vivono in maniera rassegnata. Come se fosse una cosa ovvia, scontata, che così è e per sempre sarà.
Vorrei far notare poi il modo in cui questo sistema impoverisce, in tutte le accezioni del termine, lo sviluppo del nostro cinema e su come Il centro sia alla base di questo sistema inefficiente e fallato. Il cinema italiano oggi risulta essere, per la maggior parte, una creatura pigra e stanca, che prova con il minimo sforzo a ripetere se stessa all’infinito, a sfruttare gli stessi immaginari, le stesse idee, gli stessi autori e stilemi sbiaditi ormai da tempo. Ovvio, questo è lo stato in cui versa gran parte del cinema mondiale, lo percepiamo tutti. Vediamo in sala per lo più remake, reboot, episodio II, episodio III, episodio IV. Ma non percepisco in nessun modo il tentativo reale di cambiare le cose alla radice, per il bene sia dell’industria che del pubblico.
Io stesso due anni fa ho provato ad entrare al Centro Sperimentale, fallendo. Ammetto di non trovarmi in una posizione neutrale ma d’altronde questa non è mai possibile realmente. La mia esperienza al colloquio, la prima fase di selezione, è stata a dir poco tragicomica, quasi come una puntata di Boris. Una stanza bianca, asettica, come quella in cui fanno le autopsie ai cadaveri. La luce era fredda, per lo più artificiale, quella naturale poteva entrare solo da due piccole finestrelle. Nella stanza oltre a me e agli esaminatori c’era anche un cane, piuttosto grosso, che dormiva sotto al tavolo. Non ho paura dei cani, anche io ne ho uno, ma sicuramente la situazione era meno professionale di quanto mi aspettassi. Dopo essermi seduto mi vengono fatte delle domande alle quali sfido chiunque a saper dare una risposta di getto che sia sensata. Come ultima mi viene chiesto se gioco a calcetto. Rispondo di no, ho giocato a basket agonistico per dieci anni (mannaggia a me bastava così poco). Solo dopo aver finito di scrivere mi sono accorto che la dinamica è stata identica all’episodio dei The Pills chiamato Incontro con produttori PT.1. Vi giuro che non ho copiato, è successo davvero.
Lo stesso anno in cui ho provato io, ha provato anche il figlio di Paolo Sorrentino. Ovviamente lui è entrato. Il focus qui però non vuol essere su cosa sia giusto o cosa sia sbagliato, ma sulle modalità con cui si decide chi è giusto e chi è sbagliato, chi non è abbastanza fico per entrare nel gruppo. Non voglio neanche obiettare che il figlio di Sorrentino sappia scrivere delle buone sceneggiature. Quello che accade è però, di fatto, la selezione di ragazzi e ragazze, tra i 18 e i 26 anni, sulla base di competenze professionali che potranno difficilmente acquisire in un'età così giovane se non studiando al CSC. Questo è quello che chiamo Il paradosso del Centro Sperimentale. Anche le persone che lavorano nel cinema se ne rendono conto. Di recente ho visto un estratto di un’intervista con Alessandro Roia in cui l’attore dice: «Io volevo entrare nel corso di regia ma non avevo i requisiti, non avevo un cortometraggio. Però a me sembra dicotomico, io vengo per imparare e se già ho un cortometraggio vuol dire che ho già i mezzi».
Vengono richieste delle capacità che è possibile avere solo se si è già parte del giro, se si è figli d’arte, se si viene da una famiglia che è in quel contesto. È come se la selezione fosse fatta nel parcheggio invece che all’entrata. Perché non dare a tutti gli strumenti e lasciare che siano il talento e le capacità delle persone a determinare il loro successo? Voi potreste dire: “non vedo dove sia il problema, ormai nel 2024 tutti abbiamo i mezzi per girare un film o un corto se vogliamo". Questo è vero, ma solo in parte. Per prima cosa perché girare qualcosa in modo indipendente, che non faccia schifo a livello qualitativo, richiede ancora oggi tempo, soldi e una crew di persone disposte a lavorare praticamente gratis. Nel miracolato caso (o malaugurato, dipende dai punti di vista) in cui quello che viene prodotto sia montato e finito, poi dove verrà distribuito? Chi lo vedrà? È pieno di piccoli festival dove vengono selezionati e premiati i corti, ma passare per questa trafila è un processo lungo e dispendioso che non tutti possono fare. Ed è così che se ti dice bene il primo film lo riesci a fare, con tenacia, oltre i quarant’anni, quando le tue migliori idee, e le tue energie più primordiali, stanno già iniziando a svanire.
Il punto qui non è essere polemici ma piuttosto evidenziare un fatto con una semplice domanda: quanti registi, sceneggiatori, autori non sono mai nati per colpa di questo sistema? È una modalità che senza alcun dubbio impoverisce il nostro cinema e la nostra cultura. Questo è dimostrato, come già detto, dallo stato in cui versa la produzione cinematografica italiana. Un cinema in cui se un regista ha poco meno di quarant’anni è considerato giovane e di cui i pochi esemplari più noti sono figli di come ad esempio Pietro Castellitto (I predatori, Enea) o come il più recente Filippo Barbagallo (Troppo azzurro). Sia chiaro, non voglio attaccare loro due, ho anche apprezzato i loro film. Non bisogna neanche cascare nell’errore contrario, partendo prevenuti. Io stesso penso che al loro posto avrei fatto la stessa cosa, come molti di voi. Quello che attacco è il tipo di mondo che rappresentano. Ma non perché sia solo sbagliato dal punto di vista morale ma anche culturale, economico, sociale, politico, tutto quello che volete.
Il punto è che questo sistema impedisce il rinnovo, il rinfrescamento (passatemi il termine) del cinema, il naturale svolgimento delle cose. Impedisce la nascita di nuove idee, di nuovi autori, blocca la linfa vitale dell’industria. Basta vedere le candidature ai David del 2023 per la miglior regia esordiente. L’unico vero esordiente era Giacomo Abbruzzese (Disco Boy) dato che gli altri quattro (Paola Cortellesi, Micaela Ramazzotti, Michele Riondino, Giuseppe Fiorello) sono attori tramutati in registi, che lavorano da anni nel cinema di serie A. Ma anche il film più visto dell’anno, C’è ancora domani di Paola Cortellesi, va in questa direzione. Un’opera che definirei vintage-fetish, per il bianco e nero posticcio e la vibe da brutto neorealismo rosa.
L'ultima domanda che pongo è: il cinema è entrato da tempo nel regno delle altre arti in Italia, quello dei morti viventi. Sarà possibile rianimarlo? Si, se ce lo lasciate fare.